2) Platone, il primo apocalittico


Platone considerava la scrittura strumento di illusione di sapienza e di distruzione della capacità mnemonica.

Nell’analisi delle contrastanti valutazioni che da sempre emergono all’avvento o alla diffusione di una innovazione nelle tecnologie della comunicazione, emblematico (e paradossale) può apparire il caso di Platone che, per dimostrare le conseguenze negative della diffusione della scrittura, racconta nel Fedro la storia di Thamus, re di una città dell’alto Egitto, che un giorno invita Theuth, dio autore di diverse invenzioni, tra cui i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia e l’alfabeto, ad illustrargli le sue invenzioni. Ecco ciò che scrive Platone di questo incontro:

Il re – narra Socrate a Fedro – gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti e, mentre il dio gliela spiegava, a seconda che gli sembrasse che dicesse bene o non bene, disapprovava oppure lodava. A quel che si narra, molte furono le cose che, su ciascuna arte, Thamus disse a Theuth in biasimo o lode, e per esporle sarebbe necessario un lungo discorso. Ma quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: “Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza”.
E il re rispose:
“O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti”.

Per Platone quindi l’introduzione di un nuovo medium (la scrittura) non porterà che conseguenze negative per gli uomini, decretando la fine della memoria e l’illusione della sapienza. La scrittura serve solo a chi è già sapiente, ma chi deve imparare non può che farlo attraverso l’oralità dialettica, ovvero attraverso l’insegnamento diretto del maestro. La chiarezza e la comprensione sono infatti proprie dell’oralità.

In questo senso Platone può forse essere visto, più che come il primo apocalittico, come l’anticipatore delle riflessioni sui problemi della deriva del significato, della semiosi illimitata e della decodifica aberrante di cui parlano studiosi come Eco: il distacco dalla situazione concreta dell’insegnamento (con quel valore di significato proprio della comunicazione orale) comporta il rischio della perdita dell’intentio auctoris a favore di un’intentio operis a cui si accompagna il problema dell’oggettività del significato e della sua interpretabilità da parte del lettore. Ad ogni modo, per dirla con Calvani,

quello che Platone non poteva intravedere erano gli effetti indiretti che si sarebbero prodotti nel tempo: a fronte di una relativa perdita delle capacità mnemoniche la scrittura avrebbe posto i presupposti per lo sviluppo di nuove forme di pensiero e della moderna organizzazione dei saperi.

note

1) Platone, Fedro, cit. in Gianna Cappello, “Comunicazione, storia e cultura”,
<risorsa online non più disponibile>.

2) Antonio Calvani, I nuovi media nella scuola…, cit., p. 19.

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